La prima volta anche Orio Vergani ha difficoltà a dargli un nome.
"Fu allora, sotto la pioggia che veniva giù mescolata alla grandine, che io vidi venire al mondo Coppi... Le gambe che bilanciavano nelle curve, le ginocchia magre che giravano implacabili, come ignorando la fatica, volava, letteralmente volava su per le dure scale del monte, fra il silenzio della folla che non sapeva chi fosse e come chiamarlo". É il 29 maggio del '40, undicesima tappa del Giro d'Italia, da Firenze a Modena, e il mondo si è appena accorto di quel corridore lungo e stretto al primo anno da professionista. Ma quel giorno, mentre il Giro celebra la nascita dell'uomo che rovescerà il ciclismo, sono altre le notizie che allarmano l'Italia.
Nei titoli dei giornali la punzonatura della corsa è diventata un'adunata di partenza, i termini bellici stanno entrando nel parlare comune, il ministero dell'educazione ha disposto la fine anticipata dell'anno scolastico e l'abolizione dell'esame di maturità: dai banchi bisognerà passare in fretta al fronte. Mentre Coppi affronta le montagne in maglia rosa, il governo raziona il sapone. Quando Coppi si arrampica sui tre valichi, Falzarego, Pordoi e Sella, i giornali avvertono di stare
" pronti ad obbedire quando l'ordine sarà dato ". Il giorno che Coppi vince a Milano il suo primo Giro, Hitler aspetta soltanto che Mussolini si decida di fargli da gregario. L'ammiraglia riporta in fretta il campione a Castellania: deve andare in caserma, il Giro lo ha corso in licenza. Suo padre Domenico è morto poco tempo prima, sua madre Angiolina aveva sognato per Fausto un futuro da garzone nella salumeria. Ma il destino gli aveva preparato un'altra strada.
Lo sport è un buon modo per distrarre il Paese dalla guerra imminente, e al mito nascente Coppi vengono concessi permessi e licenze. Mentre il mondo precipita, lui fa l'eroe in bicicletta: corre e ovviamente vince. Ma anche per Fausto arriverà il momento di entrare in guerra: nel '43 si ritrova in Tunisia con quelli che dovrebbero fermare l'avanzata di Montgomery. Lo fanno prigioniero, rimarrà in un campo fino al febbraio del '45. Due pensieri fissi: la nostalgia di casa e la voglia di tornare a correre. Lo farà, e cambierà per sempre il ciclismo e il nostro modo di guardarlo.
Nessun altro sport assomiglia a un lavoro come le corse in bicicletta, e per l'Italia che deve tirarsi fuori dalla guerra Fausto Coppi che parte da lontano e vince, usando il suo talento ma mettendoci anche gambe e fatica, è il simbolo della ricostruzione, è il segno che ce la possiamo fare anche quando tutto attorno a noi sembra crollato.
Nella leggenda è rimasto appaiato a Bartali, tanto che sembra impossibile raccontare di uno a prescindere dal suo contrario, nella realtà invece Coppi è stato sempre solo, lontano, in fuga. Per la sua maniera di correre. Per come ha vinto, quasi sempre per distacco, per indole e anche per non doverci provare in mezzo agli altri, magari in volata. Per come è vissuto, sempre partendo da lontano, scegliendo la strada più complicata e seguendo le regole della passione. E certo anche per come è morto, così presto, una mattina di cinquant'anni fa, in un letto dell'ospedale di Tortona. Andando a mettersi una volta per sempre là dove tutti lo ricordiamo, solo al comando.
di Alessandra Giardini
Corriere dello Sport Mercoledì 23 Dicembre 2009
Corriere dello Sport Mercoledì 23 Dicembre 2009
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