martedì 9 febbraio 2010

Coppi il mito ha 50 anni


La prima volta anche Orio Ver­gani ha difficoltà a dargli un nome.
"Fu allora, sotto la pioggia che veniva giù mescolata alla grandine, che io vidi venire al mondo Coppi... Le gambe che bi­lanciavano nelle curve, le ginoc­chia magre che giravano implaca­bili, come ignorando la fatica, vo­lava, letteralmente volava su per le dure scale del monte, fra il si­lenzio della folla che non sapeva chi fosse e come chiamarlo"
. É il 29 maggio del '40, undicesima tap­pa del Giro d'Italia, da Firenze a Modena, e il mondo si è appena accorto di quel corridore lungo e stretto al primo anno da professio­nista. Ma quel giorno, mentre il Giro celebra la nascita dell'uomo che rovescerà il ciclismo, sono al­tre le notizie che allarmano l'Ita­lia.
Nei titoli dei gior­nali la punzonatura della corsa è diven­tata un'adunata di partenza, i termini bellici stanno en­trando nel parlare comune, il ministe­ro dell'educazione ha disposto la fine anticipata del­l'anno scolastico e l'abolizione del­l'esame di maturità: dai banchi bi­sognerà passare in fretta al fronte. Mentre Coppi affronta le monta­gne in maglia rosa, il governo ra­ziona il sapone. Quando Coppi si arrampica sui tre valichi, Falzare­go, Pordoi e Sella, i giornali avver­tono di stare
" pronti ad obbedire quando l'ordine sa­rà dato "
. Il giorno che Coppi vince a Milano il suo primo Giro, Hitler aspetta soltanto che Musso­lini si decida di far­gli da gregario. L'ammiraglia ripor­ta in fretta il cam­pione a Castellania: deve andare in caserma, il Giro lo ha corso in licenza. Suo padre Domenico è morto poco tempo prima, sua ma­dre Angiolina aveva sognato per Fausto un futuro da garzone nella salumeria. Ma il destino gli aveva preparato un'altra strada.
Lo sport è un buon modo per di­strarre il Paese dalla guerra im­minente, e al mito nascente Coppi vengono concessi permessi e li­cenze. Mentre il mondo precipita, lui fa l'eroe in bicicletta: corre e ovviamente vince. Ma anche per Fausto arriverà il momento di en­trare in guerra: nel '43 si ritrova in Tunisia con quelli che dovreb­bero fermare l'avanzata di Mon­tgomery. Lo fanno prigioniero, ri­marrà in un campo fino al febbra­io del '45. Due pensieri fissi: la no­stalgia di casa e la voglia di torna­re a correre. Lo fa­rà, e cambierà per sempre il ciclismo e il nostro modo di guardarlo.
Nessun altro sport assomiglia a un la­voro come le corse in bicicletta, e per l'Italia che deve ti­rarsi fuori dalla guerra Fausto Coppi che parte da lontano e vin­ce, usando il suo talento ma met­tendoci anche gambe e fatica, è il simbolo della ricostruzione, è il segno che ce la possiamo fare an­che quando tutto attorno a noi sembra crollato.
Nella leggenda è rimasto appa­iato a Bartali, tanto che sembra impossibile raccon­tare di uno a pre­scindere dal suo contrario, nella re­altà invece Coppi è stato sempre solo, lontano, in fuga. Per la sua maniera di correre. Per come ha vinto, quasi sem­pre per distacco, per indole e an­che per non doverci provare in mezzo agli altri, magari in volata. Per come è vissuto, sempre par­tendo da lontano, scegliendo la strada più complicata e seguendo le regole della passione. E certo anche per come è morto, così pre­sto, una mattina di cinquant'anni fa, in un letto dell'ospedale di Tor­tona. Andando a mettersi una vol­ta per sempre là dove tutti lo ri­cordiamo, solo al comando.
di Alessandra Giardini
Corriere dello Sport Mercoledì 23 Dicembre 2009

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