venerdì 25 settembre 2009

Usain Bolt e la Giamaica nel sangue


"La nostra è l'Isola della veloci­tà perché così ha voluto la storia. É l'orgoglio di essere giamaicani che ci spinge a fare quello che facciamo in pista" . Usain Bolt è un campione planetario, ma in patria è ormai un idolo al pari e più di Bob Marley, l'icona del reggae scomparso nel 1981.
Il fenomeno dello sprint giamaicano, che nelle ultime sta­gioni ha messo in un angolo quello statuni­tense, sta nelle radici di questo popolo se­gnato dall'ignobile tratta degli schiavi, che dalla costa occidentale dell'Africa venivano stipati dentro improbabili imbarcazioni alla volta della Louisiana.
Ma prima di approdare in America, le na­vi negrerie facevano scalo proprio in Gia­maica. Il re dello sprint è nato nei dintorni di Trelawny, nella provincia di cui è capitale Falmouth, che nel 18° secolo era il porto più importante della Giamaica, dove approdava­no le navi provenienti dall'Africa. Gli schia­vi migliori venivano venduti al mercato. I più resistenti e in salute restavano sull'Isola.
"Io sono un figlio di quegli schiavi. All'ini­zio del 19° secolo in tutta la provincia di Trelawny ce n'erano circa 30.000, un numero enorme all'epoca - racconta Bolt - Lavorava­no tutti nelle piantagioni di canna da zuc­chero.
Nel 1832 ci fu una rivolta che fu seda­ta nel sangue. Sei anni dopo gli schiavi otten­nero la libertà e alcuni di loro fondarono dei nuovi villaggi fuori Falmouth.
Io sono nato in uno di questi, il cui nome è Sherwood Con­tents. I miei genitori hanno un piccola casa tra le colline, in tutto saremo meno di 1000 abitanti."
Oggi Bolt ha comprato un appartamento a Kingston, dove vive con il fratello. Si allena tutti i giorni, la mattina presto su una pista in erba, e gira con due guardie del corpo. Ma quando può passa volentieri qualche giorno con i genitori. Ora ci si impiega di meno per arrivarci in macchina. Dopo i tre ori conqui­stati a Pechino gli abitanti di Sherwood Con­tents hanno chiesto al Governo di asfaltare la strada che collega a Falmouth e sono stati accontentati.
Hanno chiesto pure di avere l'acqua potabile in casa e presto arriverà an­che questa.
"Fa piacere vedere che con i miei record e delle mie vittorie possono essere uti­le a migliorare le condizioni di vita del mio popolo. Sono cosciente di essere un modello per i giovani giamaicani e cerco di non di­menticarlo mai"
Bolt non si sente così diverso da loro. Estroverso e gioioso anche quando è impe­gnato a fare cose eccezionali.
"La mia gio­ventù è stata uguale a quella di tanti giamai­cani. Giocavo a cricket e a calcio sull'erba dietro la mia scuola. Lo sprint è arrivato do­po. Quando la scuola ha fatto delle selezioni e io l'ho vinte, così a 14 anni sono andato a fare le finali studentesche nella Capitale e ho corso sulla pista in materiale sintetico. Dalle mie parti invece non l'hanno mai vi­sta ."
Dopo qualche garetta però, Usain voleva smettere e tornare a giocare a cricket. Poi l'incontro con Mills che gli ha cambiato la vi­ta.
"Il mio primo allenatore non mi piaceva. Mi proibiva tutto, anche di ascoltare musica. Noi abbiamo la musica nel sangue. E il bal­lo è il linguaggio del corpo, ecco perché mi piace festeggiare con uno show in pista quando vinco. A noi piace stare in compa­gnia. La solitudine è noiosa, sempre"
A 23 anni sono ancora molte le pagine della sua storia che devono ancora essere scritte.
"Io devo vincere e stupire per i prossimi dieci anni. Molti campioni giamaicani hanno vin­to nel passato. Ma non abbastanza da farsi ricordare. Voglio che il mondo si ricordi di me e della Giamaica. Per sempre."
di Franco Fava
Corriere dello Sport

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