Nella foresta d'asfalto quella di Fernando Alonso. C'è un tale che ascolta il pianto disperato di un bambino, si avvicina alla madre chinata e le chiede: signora, qualche problema? posso aiutarla? e lei: ma niente, la ringrazio, è solo che tutti i giorni mio figlio mi chiede di fare a gara di corsa con lui mentre lo accompagno a scuola. E stavolta ha perso. É una storia di città ma anche di strade secondarie e polverose quella di Alonso, un tempo ragazzino fragile e ora uomo forte della Ferrari che tenta di ricostruire l'impero lasciatole in eredità da Michael Schumacher dopo l'interregno di Raikkonen.
Oviedo, l'inizio
La città è Oviedo, duecentomila abitanti e poco più, emergente nel Nord della Spagna solcato dalle valli minerarie da dove partì la Reconquista contro i mori. Lì la madre di Fernando, Ana, lo accompagnava a scuola, sottostava ai suoi capricci di cattivo perdente, già allora, e vendeva profumi ai grandi magazzini Corte Inglés. Le strade erano quelle lungo le quali il padre José Luis trasportava esplosivi e al suo salario della paura aggiungeva il benefit di immaginarsi, mentre procedeva a passo d'uomo, lanciato in controsterzo verso il traguardo. In gioventù aveva vinto qualcosa a livello locale, poi da pilota era diventato camionista e non se ne lamentava.
Un kart, per caso
Magari, a differenza dei compagni di pista José Luis aveva saputo conservare fresche le proprie illusioni. E le prendeva con il giusto senso dell'umorismo. Costruì un kart, due pezzi di metalli in croce e un motorino rimediato, e lo regalò alla prima figlia, Lorena, con l'augurio di partire da lì per diventare un giorno campionessa del mondo di Formula 1. Era uno scherzo, ma d'altra parte il padre neppure si aspettava che dopo poche centinaia di metri Lorena, ringraziato educatamente, abbandonasse il trabiccolo e tornasse a studiare. Non andò sprecato nulla, perché il piccolo Fernando, che aveva tre anni, cominciò a toccare la croce di metallo con un dito, poi con tutta una mano, e ci salì e volle guidarlo. Un colpo di fulmine in trio, il kart, il padre e il figlio. Due anni dopo Fernando aveva un kart meno artigianale. Altri due anni e vinceva a Laviana la prima gara vera a cui partecipava, e le altre sette del piccolo campionato.
Il gioco si fa serio
l'Alonsismo, che poi avrebbe allagato la Spagna intera coprendola di bandiere gialle e azzurre con abili grafiche che mescolavano i simboli della Renault con quelli delle Asturie, tanto i colori giallo e azzurro sono gli stessi, non era ovviamente ancora nato e neppure la passione generalizzata per le corse automobilistiche, offuscate dalle moto. Per le gare di kart si andava in piazza, si buttavano balle di paglia sull'asfalto, si tracciavano col gesso corsie che alla sera sarebbero state diligentemente cancellate con acqua e stracci. Finché tutto era un gioco, la famiglia di Fernando poteva giocare. Ma quando per togliersi un pensiero promossero d'ufficio il ragazzino non ancora undicenne alla categoria dei 100 centimetri cubici e bisognava cominciare a spingersi oltre i paesi del circondario, andare fino a Madrid, la faccenda cominciò a diventare costosa. Per fortuna il mondo dei motori è piccolo e prima o poi chiunque incontra chiunque. Gli Alonso a Mora de Ebro, vicino a Tarragona, incontrarono Genis Marcò, importatore di kart dall'Italia. Bel casco hai, disse Marcò, e Fernando guardò il suo elmetto domandandosi che cosa accidenti avesse di speciale. Hai un bel casco, ma per avere successo serve altro (volevo ben dire, pensò Alonso), facciamo così, se vinci questa gara ti troviamo uno sponsor. Andò a finire come immaginate e ancora oggi Fernando ricorda l'espressione di felicità sulla faccia del padre quel giorno come una delle cose più belle che abbia visto in vita sua.
I sermoni del papà
Era il 1993 e non pensiate che le tribolazioni di Fernando - quelle che qualsiasi pilota, ricco o povero, desideroso di distinguersi incontra sul cammino - siano finite lì. Gli sponsor vanno arrotondati e il ragazzo cominciò a dare consigli a pagamento ai kartisti più giovani, poi a smontare e rimontare le loro macchinette. Nel 1995, con l'avanzare del suo successo, poté smettere dopo aver raccolto 100.000 pesetas, circa 500 euro, che comunque aiutarono. Il padre glielo aveva detto chiaro, e continuava a ripeterglielo durante i viaggi verso dappertutto, soprattutto verso l'Italia, a bordo della loro Peugeot 405, Fernando stammi a sentire, continua a studiare perché altrimenti ti sequestro il kart, Fernando ricordati che esistono sforzi che non saranno mai premiati ma non esistono premi che arrivino senza sforzo. Qualche volta il ragazzo ascoltava, altre volte scansava i sermoni addormentandosi distrutto sul sedile posteriore. E andò avanti così, imparando le lingue, l'italiano perfetto, l'inglese professionale, e imparando ogni mistero e ogni peccato del lavoro di kartista, imparando a vincere e a perdere (poco, in verità). Finché Adrian Campos, un tempo pilota di Formula 1, non lo convinse dopo un assedio intellettuale durato due anni che esistevano le macchine con le marce.
Lui e i freni: un rapporto difffcile
Nel 1998 ad Albacete misero tra le mani di Fernando una Formula Nissan e al suo fianco Marc Gené, che ancora oggi vince le 24 Ore di Le Mans e collauda le Ferrari. Gené gareggiava in quella serie, aveva appena realizzato la pole proprio ad Albacete, ma quel tempo crollò davanti ai progressi di Alonso: un giorno per imparare a usare il cambio, un altro giorno per andare forte, un altro giorno ancora per andare più forte di tutti. Insomma, lo iscrissero al campionato. Alla prima gara andarono a raccogliere la macchina nel prato e Campos si chiese se non avesse sbagliato tutto, preoccupandosi ancora di più quando all'invito a non esagerare Alonso replicò che esagerare era parte del suo mestiere e che ormai non intendeva più farne altri. Campos si tranquillizzò alla seconda corsa. Alonso era in testa con 42' di vantaggio, rallenta, controlla, gli gridarono alla radio, e il pilota con genuino stupore rispose che più forte di così non riusciva a frenare.
Le sue strategie vincenti
A raccontarle oggi sembrano esagerazioni, acrobazie inventate da spadaccino cinese, ma la realtà è che Alonso era davvero di una pasta diversa dagli altri. E poi non tutte le gare andavano così lisce, tanto che alla fine di quel 1999 per imporsi nel campionato Fernando doveva non solo arrivare primo ma pure marcare il giro veloce, che fruttava un punto decisivo. Organizziamoci, disse ai suoi: io vado in testa, poi mi avvertite se qualcuno batte il mio tempo. E ogni volta che qualcuno alleggerendosi di benzina andava più veloce di lui, Alonso raccoglieva l'allarme lanciato dai box, accelerava, ristabiliva le distanze, si placava. Più e più volte, e alla fine uscì dalla macchina sfinito, fradicio di sudore e con il titolo.
Corriere dello Sport Mercoledì 7 Ottobre 2009
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